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Fischia il vento – note storiche

Da C. Bermani, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese. Saggi sul canto sociale, ed. Odradek, pp. 219-220:

“Scriveva Pietro Secchia a Gianni Bosio il 10 luglio 1959: “Non esiste un inno ufficiale delle Brigate garibaldine. Esistono invece le canzoni più popolari tra le diverse Brigate garibaldine”. La canzone di gran lunga più popolare e non solo fra le Brigate garibaldine, fu Fischia il vento, diffusasi rapidamente e un po’ dovunque, in versioni sostanzialmente omogenee sulla melodia della canzonetta sovuetica Katiuscia, scritta nel 1938 da V. Isakovskij e musicata da M. Blanter. La genesi dell’inno della resistenza è stata da tempo ricostruita da Francesco Biga, ora direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Imperia. Giacomo Sibilla (Oneglia, 12 aprile 1916) era stato uno dei soldati del 2° Reggimento del Genio Telegrafisti dell’82esima Compagnia autonoma del 4° Corpo d’armata in Unione Sovietica, di guarbigione nell’ansa del Don. Là aveva appreso Katiuscia, ascoltando le ragazze e i prigionieri sovietici, nell’estate del 1942. Dopo l’8 settembre 1943, assunto il nome di battaglia di Ivan, era entrato a fare parte di una banda composta da una trentina di partigiani nella zona di Sant’Agata (Imperia), poi aggregatasi a quella del dottor Felice Cascione (U megu), costituitasi a Magaietto (Diano Castello). All’inizio del dicembre 1943, mentre il gruppo partigiano era accantonato in un casone a Passo de Beu, nella Vota Grande (Alta valle di Andora), Sibilla propose che si componesse una canzone dei garibaldini imperiesi sull’aria di Katiuscia, dopo che si era già tentato di farne un’altra sull’aria del coro del Nabucco.Così alcuni partigiani, tra cui lo stesso Sibilla, che si accompagnava con una vecchia chitarra, avevano iniziato a scriverne e cantarne i primi versi. Fu comunque decisivo l’intervento di Felice Cascione, che insieme allo studente Felice Alderisio (Vassili) compose le prime strofe della canzone, rimasta interrotta, perché il 14 e 15 dicembre si era verificato a Montegrazie uno scontro con i fascisti della 33esima legione Tagliamento e la banda aveva dovuto trasferirsi nei boschi di Curenna (alta valle di Albenga) dove, nel casone dei Crovi venne terminata per il Natale e cantata per la prima volta in coro. Essa era il prodotto di discussioni tra partigiani che, per lo più di origine operaia, avrebbero voluto un contenuto del canto più marcatamente sociale e di altri che preferivano rispecchiasse l’unione di tutte le forze partigiane: Mediatore di tutti questi sentimenti, era Felice Cascione che difese la propria versione, e alla fine la impose trasmettendola poi a Giacomo Castagneto, segretario generale clandestino del Pci di Imperia. Su di essa intervenne allora Carlo Faringi, ispettore  delle zone operative I e II della Liguria, sostituendo “rossa primavera” in “nostra primavera”, volendo con ciò tenere conto – come scrive in una lettera – del “carattere unitario e non partitico che le nostre formazioni dovevano assumere”. Il testo con l’aggettivo corretto venne recapitato alla formazione un giorno o due prima della battaglia di Alto del 27 gennaio 1944, in cui Cascione trovò la morte, ma i garibaldini imperiesi continuarono imperterriti a cantare “rossa primavera” per tutto il periodo della Resistenza”.

Da R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, capitolo ”la letteratura partigiana”, Torino 1953, pp. 415-416:

”Esiste vicino alle canzoni regionali la cui cerchia o il cui influsso resta genericamente racchiuso nella formazione partigiana d’origine, una canzone veramente nazionale, cantata dovunque, senza più limiti di dialetto o di formazione? Esiste certamente, ed è la canzone Fischia il vento, urla la bufera, che troviamo nelle regioni più diverse, senza che gli stessi partigiani che la cantano ne sappiano l’origine… L’aria è quella di Katiuscia, la canzone dell’esercito russo, udita dai nostri fanti in URSS e riportata in patria dai reduci della tragica spedizione. Arrivata in Italia essa fermentò segretamente nel ricordo, divenne un modo non solo di dire a se stessi che gli altri avevano ragione, ma di rendersi conto della propria esperienza. Perché in Katiuscia era espressa quella ribellione all’invasore che aveva ispirato i soldati sovietici e che ora ispirava la guerra di liberazione”

Da T. Romano e G. Solza, Canti della Resistenza italiana, Milano, ed. Avanti!, 1960, p.163:

”E’ il più famoso inno della Resistenza italiana. Fu cantato quasi ovunque tra le brigate partigiane. Dopo la Liberazione varie persone rivendicarono la paternità di Fischia il vento, ma è probabile che il vero autore del testo sia stato Felice Cascione, comandante partigiano che diede il suo nome alla II Divisione d’assalto garibaldina operante nella zona di Imperia.
La melodia di Fischia il vento è presa da una canzone russa intitolata Katiuscia, di soggetto amoroso. Opera del poeta sovietico Michail Isakovski, Katiuscia ha avuto molta fortuna anche nell’Unione Sovietica. La prima strofa dice: Fiorivano i meli, fiorivano i peri / Le nebbie veleggiavano sul fiume, / Katiuscia discendeva alla riva, / All’alta riva scoscesa… Il testo è stato ripreso da Giulio Mongatti”

Fischia il vento nella letteratura:

Vasco Pratolini, Le ragazze di Sanfrediano, ed.Mondadori, pp.17-21:

“Un giorno, il secondo giorno che erano scesi dalle montagne, e Sanfrediano era insorta, ed erano arrivate le avanguardie degli eserciti alleati, i ponti erano saltati e il di qua d’Arno assediato, coi fascisti che sparavano dai tetti, i partigiani allinearono tre “neri” contro i muri di Piazza del Carmine. Tosca era di fronte che guardava, tra la gente addossata alle case che stava zitta o sfilava per le traverse. […] Spararono […] Questa volta i tre che caddero non dissero viva nulla, soltanto uno dei tre gridò “alalà”, poi si udì una voce nel gruppo dei partigiani, al centro della piazza, che cominciò una canzone, e si levò il coro:
Scarpe rotte
eppur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir…

Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny:

La corrente centrale della folla li derivò verso un assembramento di rossi: avevano issato un compagno su una specie di podio e lo invitavano, lo costringevano a cantare con una selvaggia pressione. Il ragazzo nicchiava. Da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò “Fischia il vento infuria la bufera” nella versione russa con una splendida voce di basso. Tutti erano calamitati a quel podio, anche gli azzurri, anche i civili, a onta della oscura, istintiva ripugnanza per quella canzone così genuinamente, tremendamente russa. Ora il coro rosso la riprendeva, con una esasperazione fisica e vocale che risuonava come ciò che voleva essere e intendere, la provocazione e la riduzione dei badogliani. L’antagonismo era al suo acme sotto il sole, il sudore si profondeva dalle nuche squadrate dei cantori. Poi il coro si spense per risorgere immediatamente in un selvaggio applauso, cui si mischiò un selvaggio sibilare degli azzurri, ma come un puro contributo a quell’ubriacante clamore. Qualche badogliano propose di contrattaccare con una propria canzone, ma quale canzone potevano opporre, con un minimo di parità, a quel travolgente canto rosso? Disse Johnny a Ettore che aveva ritrovato appena fuori della cintura rossa: “Essi hanno una canzone e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. E’ una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone”.



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